TRIBUNALE DI COMO 
                           Sezione Civile 
 
    Il giudice del lavoro dott.  Laura  Tomasi,  nella  causa  R.G.L.
1147/2013, 
 
                                 Tra 
 
    Francesco Tortora e Coco's S.r.l. Unipersonale (Avv. Minella) 
 
                                                           Ricorrente 
 
                                  E 
 
    Direzione Territoriale del Lavoro di  Como  (funzionari  delegati
dott. Barbaro, Blumetti, Bonacci) 
 
                                                           Resistente 
    A scioglimento della riserva assunta  all'udienza  del  12  marzo
2015, letti gli atti e documenti di causa, 
Ha pronunciato la seguente 
 
               Ordinanza ex art. 23, legge n. 87/1953 
 
    Con ricorso depositato il 16 settembre  2013,  Francesco  Tortora
(in qualita' di obbligato principale) e  Coco's  S.r.l.  Unipersonale
(in qualita' di obbligato solidale)  hanno  proposto  opposizione  ex
art.    6,    decreto    legislativo     n.     150/2011,     avverso
l'ordinanza-ingiunzione  n.   82/2013,   con   quale   la   Direzione
territoriale del lavoro (di seguito: DTL) di  Como  ha  irrogato  una
serie di sanzioni amministrative, tra cui la c.d. maxi  sanzione  per
il lavoro nero prevista dall'art. 3, comma 3, D.L. n. 12/2002,  nella
misura  complessiva  di  €  10.540,00,   in   relazione   all'impiego
irregolare di quattro lavoratrici (sig. Zennaro, Centi,  Soldano,  El
Kotaichi), per 24 giornate lavorative. 
    L'opponente   ha   allegato    l'illegittimita'    dell'ordinanza
ingiunzione per carenza di motivazione; per  carenza  di  istruttoria
nel  procedimento  amministrativo;  per  mancata  allegazione   delle
dichiarazioni  dei  lavoratori  al  verbale  di   accertamento;   per
emissione dell'ordinanza  in  pendenza  di  un  ricorso  al  Comitato
regionale; per  mancata  audizione  del  sig.  Tortora;  per  mancata
comunicazione di  avvio  del  procedimento;  per  mancata  tempestiva
contestazione della violazione al trasgressore. 
    L'opponente    ha    altresi'    contestato     le     risultanze
dell'accertamento ispettivo, evidenziando l'autenticita' del rapporto
di apprendistato con la lavoratrice El Kotaichi e deducendo  che  con
le lavoratrici Zennaro, Centi  e  Soldano  era  stato  instaurato  un
contratto di prestazioni di lavoro accessorio ex  art.  70  lett.  e)
decreto legislativo n. 276/2003. 
    Quanto  al  regime   sanzionatorio,   l'opponente   ha   eccepito
l'inapplicabilita' della c.d. maxi sanzione per il lavoro nero di cui
all'art. 3, comma 3,  D.L.  n.  12/2002,  come  modificato  dall'art.
36-bis comma 7, legge n. 248/2006, deducendo che le lavoratrici erano
state regolarmente impiegate e che  pertanto  non  sussisteva  alcuna
volonta' di occultare i rapporti di lavoro; che  era  illegittima  la
duplicazione della  sanzione  per  la  lavoratrice  Zennaro,  che  la
sanzione applicata era stata abrogata dall'art. 4, legge n.  183/2010
e  che,  in  virtu'  della  nuova  normativa,   ricorreva   l'ipotesi
scriminante di cui comma 4 del novellato art. 3 D.L. n.  12/2002;  in
ogni caso la sanzione avrebbe dovuto essere calcolata in applicazione
dei principi di cumulo di cui all'art. 8, legge n. 689/81. 
    L'opponente ha infine chiesto l'applicazione delle sanzioni nella
misura minima considerato l'atteggiamento collaborativo. 
    L'opponente ha  pertanto  chiesto  l'annullamento  dell'ordinanza
ingiunzione impugnata o in subordine, la riduzione delle sanzioni. 
    Si e' costituita in giudizio la DTL, opponendosi dall'istanza  di
sospensione del giudizio e contestando quanto ex adverso  dedotto  in
quanto infondato in fatto e in diritto. 
    All'esito  dell'istruttoria,  il  giudice,  rilevato  che,   come
dedotto  dalla  parte  ricorrente,  la  disciplina  della  c.d.  maxi
sanzione per il lavoro nero di cui  all'art.  3,  comma  3,  D.L.  n.
12/2002 era stata riformata in senso favorevole dall'art. 4, comma 1,
lettera a) legge n. 183/2010, ha prospettato alle parti, ex art.  101
comma 2 c.p.c., la questione dell'applicabilita' alla fattispecie, in
astratto, del piu' mite regime sanzionatorio di  cui  alla  legge  n.
183/2010 (in particolare, del trattamento  sanzionatorio  affievolito
di cui all'art. 3 comma 3 secondo periodo  D.L.  n.  12/2002);  della
natura «penale»,  ai  sensi degli  artt.  6  e  7  CEDU,  cosi'  come
interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle sentenze
Menarini c. Italia  (27  settembre  2011,  ric.  43509/08)  e  Grande
Stevens c. Italia (4 marzo 2014,  ric.  18640/10),  della  c.d.  maxi
sanzione per il lavoro nero; del possibile  contrasto  con  l'art.  7
CEDU, cosi' come interpretato nella sentenza Scoppola c.  Italia  (17
settembre 2009 ric. 10249/2003), dell'art. 1, legge n. 689/81,  nella
parte in cui non prevede, come invece dispone l'art. 2 comma 4  c.p.,
l'applicazione retroattiva del trattamento sanzionatorio piu' mite. 
    Nelle note difensive presentate nel termine impartito,  la  parte
opponente ha sostenuto l'applicabilita' alla fattispecie di causa del
trattamento sanzionatorio piu' mite previsto dall'art. 3 commi 3 e  4
D.L. n.  12/2002,  come  novellato  dalla  legge  n.  183/2010  e  ha
richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 254/2014 che  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 36-bis, comma 7,
lett. a) D.L. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006,  nella  parte  in
cui stabiliva che l'importo delle sanzioni civili connesse all'omesso
versamento dei contributi e premi per i lavoratori  assunti  in  nero
non potesse essere inferiore € 3000, indipendentemente  dalla  durata
della prestazione lavorativa accertata. 
    Nelle proprie note difensive, la DTL ha ritenuto che la questione
sollevata dal giudicante fosse ultra petita, in quanto in ricorso  la
parte opponente aveva domandato l'applicazione del comma 4  dell'art.
3 D.L. n. 12/2002, cosi' come  introdotto  dalla  legge  n.  183/2010
(elisione totale della sanzione amministrativa in caso di adempimenti
di carattere contributivo precedentemente assolti che  evidenzino  la
volonta' di non occultare rapporto) e non l'applicazione del comma  3
della medesima disposizione  (trattamento  sanzionatorio  affievolito
per successiva occupazione regolare dei lavoratori in nero). 
    La DTL, in subordine, ha affermato che la disciplina  di  cui  al
comma 3 (sanzioni affievolite per  successiva  occupazione  regolare)
sarebbe astrattamente applicabile  alle  lavoratrici  El  Kotaichi  e
Soldano, di talche' in relazione alle  predette  lavoratrici  sarebbe
rilevante la questione prospettata dal giudicante. 
    Cio' premesso in punto di svolgimento del  processo,  ritiene  il
giudicante rilevante e non manifestamente infondata la  questione  di
legittimita' costituzionale, per contrasto con  l'art.  117  comma  1
Cost. (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU),  e  con  l'art.  3  Cost.
dell'art. 1, legge n. 689/81, nella parte in cui  non  prevede,  come
invece dispone l'art. 2 comma 4 c.p., l'applicazione retroattiva  del
trattamento sanzionatorio piu' mite. 
    Quanto alla rilevanza della questione, si osserva  anzitutto  che
la causa non puo' essere decisa  sulla  base  delle  censure  formali
sollevate     dalla      parte      opponente      nei      confronti
dell'ordinanza-ingiunzione  e  del  procedimento  di  adozione  della
stessa, poiche' dette censure sono da ritenersi infondate. 
    Non  si  riscontra,  infatti,  alcuna  carenza   di   motivazione
nell'ordinanza ingiunzione, che descrive  in  dettaglio  le  condotte
contestate alla parte opponente, le sanzioni applicate e i criteri di
calcolo delle stesse,  indicando  le  disposizioni  sanzionatorie  in
specie rilevanti  e  rinviando  peraltro  al  contenuto  del  verbale
conclusivo dell'ispezione congiunta (n. 51C/057 del 20 gennaio 2010),
notificato agli opponenti. 
    L'istruttoria nel procedimento ispettivo non appare poi  carente,
avendo gli ispettori sia effettuato un accesso in  loco  in  data  24
luglio 2009, sia acquisito le dichiarazioni dei lavoratori e del sig.
Tortora, sia esaminata la documentazione di impresa, incluso il libro
unico del lavoro (v. risultanze del verbale conclusivo del 20 gennaio
2010). 
    Non  inficia,   d'altronde,   la   validita'   del   procedimento
amministrativo o dell'ordinanza ingiunzione  la  circostanza  che  le
dichiarazioni dei lavoratori non  siano  state  allegate  al  verbale
conclusivo del 20 gennaio 2010, essendo  il  contenuto  delle  stesse
dettagliatamente riportato nel verbale. 
    L'ordinanza ingiunzione e' stata poi emessa dopo il  rigetto  per
tardivita' del ricorso amministrativo presentato da  parte  opponente
al  Comitato  regionale  per  i  rapporti  di  lavoro.   Il   ricorso
amministrativo era effettivamente tardivo, come  risulta  dall'avviso
di ricevimento della raccomandata di notifica prodotto dalla DTL  sub
doc. 4. Peraltro,  il  rigetto  del  ricorso  amministrativo  non  ha
impedito alla parte opponente di presentare ricorso giudiziale. 
    La mancata audizione, nel procedimento amministrativo,  del  sig.
Tortora non appare idonea a  inficiare  la  validita'  dell'ordinanza
ingiunzione, in base alla piu' recente giurisprudenza di legittimita'
(Cass. SU n.  1786/2010)  secondo  cui  anche  laddove  le  deduzioni
difensive proposte dall'interessato non siano state esaminate o siano
state respinte senza adeguata  motivazione,  cio'  non  determina  la
nullita'   dell'ordinanza   ingiunzione,    ma    semplicemente    il
potere-dovere del giudice  di  esaminare,  in  sede  di  giudizio  di
opposizione, dette difese, ove riproposte. 
    Le sentenze citate in senso contrario da parte  opponente  (Cass.
n. 13622/2009 e n.  15292/2007)  appaiono  precedenti  all'intervento
delle Sezioni Unite e non pienamente pertinenti, in  quanto  relative
alla specifica materia delle violazioni del codice della strada. 
    Si osserva peraltro che la DTL ha rinviato la prima audizione del
sig. Tortora su  istanza  dello  stesso  e,  successivamente,  lo  ha
riconvocato per ben due volte (doc.  18  fasc.  DTL),  rispetto  alla
quale non risulta che l'interessato abbia fatto valere impedimenti  a
partecipare. Pertanto, la mancata audizione del sig.  Tortora  appare
sostanzialmente riconducibile a cause imputabili allo stesso. 
    Non e' fondata nemmeno la  censura  di  violazione  dell'art.  7,
legge n. 241/90 per mancata comunicazione di avvio  del  procedimento
amministrativo, posto che detta legge non si applica al  procedimento
di irrogazione delle sanzioni amministrative ex lege 689/81 (Cass. SU
n. 9591/2006). 
    Infine, non risulta violato l'art. 14 legge n. 689/81 che prevede
che l'illecito amministrativo debba essere contestato entro 90 giorni
dall'accertamento. Invero, l'accertamento ispettivo, cominciato il 24
luglio 2009, e' terminato il 2 novembre 2009 con l'acquisizione delle
ultime dichiarazioni della lavoratrice Centi (doc. 11  fasc.  DTL)  e
verbale di accertamento e'  stato  notificato  il  20  gennaio  2010,
pertanto  nel  rispetto  del  termine  trimestrale   previsto   dalla
disposizione. 
    D'altro canto, l'ordinanza ingiunzione non puo' essere  annullata
per i motivi in fatto dedotti dalla parte opponente, in quanto  dalle
dichiarazioni rese dallo stesso sig. Tortora e  dai  lavoratori  agli
ispettori, nonche' dalle deposizioni dei testi in giudizio, e' emerso
lo svolgimento di lavoro in nero da parte delle lavoratrici  Zennaro,
Centi, Soldano e El Kotaichi, per le giornate  contestate  dalla  DTL
nell'ordinanza ingiunzione. 
    E' peraltro altresi' emerso  in  causa  che,  dopo  avere  svolto
alcune giornate di lavoro non regolarizzato, le lavoratrici Zennaro e
Centi sono state assunte con contratto di collaborazione occasionale,
la  lavoratrice  El  Kotaichi  e'  stata  assunta  con  contratto  di
apprendistato e  la  lavoratrice  Soldano  con  contratto  di  lavoro
subordinato. 
    Ad avviso del  giudicante,  dunque,  non  risultando  fondate  le
censure  procedurali  svolte  dal  ricorrente,  e  risultando  invece
dimostrato in istruttoria lo svolgimento di lavoro in nero  da  parte
delle lavoratrici Zennaro, Centi, Soldano, El Kotaichi, correttamente
la DTL ha applicato, nell'ordinanza ingiunzione la c.d. maxi sanzione
per il lavoro nero di cui all'art. 3 comma 3, legge n. 73/2002,  come
modificato dall'art. 36-bis, comma 7, legge  n.  248/2006  e  vigente
all'epoca della commissione dei fatti. 
    Ne deriva che l'ordinanza ingiunzione dovrebbe essere  sul  punto
confermata e la c.d. maxi sanzione per il lavoro nero applicata. 
    Diventa  questo  punto  rilevante,  nel  presente  giudizio,   la
questione   dell'applicabilita'   della    disciplina    sopravvenuta
introdotta dall'art. 4, comma 1, lett. a) legge n. 183/2010. 
    Detta disciplina e' da qualificarsi come  piu'  mite  rispetto  a
quella vigente all'epoca dei fatti. 
    Invero,  la  sanzione  applicata  nell'ordinanza  ingiunzione   e
vigente all'epoca della commissione dei  fatti  era  quella  prevista
dall'art. 3 comma 3 del D.L. n. 12/2002 conv. in  legge  n.  73/2002,
come sostituito dall'art. 36-bis, comma  7,  lett.  a)  del  D.L.  n.
223/2006, conv. in legge n. 248/2006, che prevedeva: «ferma  restando
l'applicazione  delle  sanzioni  gia'  previste  dalla  normativa  in
vigore, l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture  o  da
altra documentazione obbligatoria e' altresi' punito con la  sanzione
amministrativa  da  €  1.500  a  €  12.000  per  ciascun  lavoratore,
maggiorata di € 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo  [...]»
(1) 
    Successivamente, l'art. 4, comma 1, lett. a) legge n. 183/2010 ha
cosi' sostituito il comma 3 dell'art. 3 del D.L. n.  12/2002:  «Ferma
restando l'applicazione delle sanzioni gia' previste dalla  normativa
in vigore,  in  caso  di  impiego  di  lavoratori  subordinati  senza
preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di  lavoro  da
parte del datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore
di lavoro domestico, si applica altresi' la  sanzione  amministrativa
da € 1.500 a € 12.000 per ciascun lavoratore  irregolare,  maggiorata
di € 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo.  L'importo  della
sanzione e' da € 1.000 a € 8.000 per ciascun  lavoratore  irregolare,
maggiorato di € 30 per ciascuna giornata di  lavoro  irregolare,  nel
caso in cui  il  lavoratore  risulti  regolarmente  occupato  per  un
periodo lavorativo successivo» (2) . 
    L'art.  4  comma  1  lett.  a)  legge  n.  183/2010  ha  altresi'
sostituito il comma 4 dell'art. 3 del D.L. n. 12/2002 con il seguente
testo: «le sanzioni di  cui  al  comma  3  non  trovano  applicazione
qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo  precedentemente
assolti, si  evidenzi  comunque  la  volonta'  di  non  occultare  il
rapporto, anche se trattasi di differente qualificazione». 
    Dal mero raffronto testuale emerge che la  disciplina  introdotta
dalla legge n. 183/2010 configura un trattamento  sanzionatorio  piu'
mite, prevedendo sia  una  riduzione  della  cornice  edittale  della
sanzione nel caso in cui «il lavoratore risulti regolarmente occupato
per un periodo lavorativo successivo»  (comma  3,  c.d.  ravvedimento
operoso),  sia  l'elisione  totale  delle  sanzioni  «qualora,  dagli
adempimenti di carattere  contributivo  precedentemente  assolti,  si
evidenzi comunque la volonta' di non occultare il rapporto, anche  se
trattasi di differente qualificazione» (comma 4). 
    Infine, non ritiene il  giudicante  che  la  questione  sollevata
all'udienza del 17 dicembre 2014 (compatibilita' con gli artt. 6 e  7
CEDU e l'art. 117 Cost. della mancata  previsione  del  principio  di
retroattivita'   della   lex   mitior   in   materia   di    sanzioni
amministrative) sia ultra  petita,  per  avere  la  parte  ricorrente
chiesto l'applicazione del novellato comma 4, dell'art.  3,  D.L.  n.
12/2002  e  non  del  novellato  comma  3   secondo   periodo   della
disposizione. 
    E'   noto   che    il    giudizio    di    opposizione    avverso
ordinanza-ingiunzione di pagamento di somma di  denaro  a  titolo  di
sanzione amministrativa risponde ai  principi  della  domanda,  della
corrispondenza  tra  chiesto  e  pronunciato  e  del  divieto   della
pronunzia   d'ufficio    su    eccezioni    rimesse    esclusivamente
all'iniziativa di parte (in tal senso v. inter alla Cass.  civ.  sez.
lav. n. 9178/2010). In applicazione  di  tale  principio,  la  SC  ha
ritenuto precluso al giudice dell'opposizione ridurre l'entita' della
sanzione applicata in difetto di  domanda  dell'opponente,  il  quale
abbia unicamente chiesto  l'annullamento  dell'ordinanza  ingiunzione
(v. Cass. n. 21486/2004). 
    In specie, la  parte  opponente,  in  relazione  alla  c.d.  maxi
sanzione per il lavoro nero, non solo aveva lamentando  l'illegittima
duplicazione della sanzione con riferimento alla lavoratrice Zennaro,
ma aveva anche eccepito l'inapplicabilita' del  regime  sanzionatorio
di cui all'art. 36-bis comma 7, legge n.  248/2006  (p.  12  ss.  del
ricorso), per abrogazione a opera dell'art. 4 comma 1, lett. a) legge
n.  183/2010.  In  particolare,  il  ricorrente  aveva  richiamato  i
novellati commi 3 e 4 dell'art. 3 D.L. n. 12/2002 e chiedendo che  in
specie venisse applicato il comma 4 della disposizione. 
    Peraltro,  a  p.  12  del  ricorso,  la  parte  opponente   aveva
evidenziato  l'irragionevolezza  dell'applicazione  della  c.d.  maxi
sanzione per il lavoro nero, in quanto in specie i rapporti di lavoro
non  si  erano  svolti  interamente   in   nero,   ma   erano   stati
regolarizzati. 
    A  p.  16  del  ricorso  la   parte   opponente   aveva   chiesto
"l'applicazione  della  sanzione  nella   misura   minima   possibile
considerato   «l'atteggiamento    collaborativo»    e    «l'esiguita'
dell'asserito comportamento illecito». 
    Nelle conclusioni,  la  parte  opponente  aveva  chiesto  in  via
subordinata «ridursi la sanzione alla diversa  somma  che  risultasse
dovuta considerata l'illegittima duplicazione adottata». 
    Interpretando le conclusioni del  ricorso  alla  luce  del  corpo
dell'atto, e delle deduzioni in esso svolte, si deve  concludere  che
la parte opponente ha  chiesto  la  riduzione  delle  sanzioni  e  ha
altresi' allegato che l'inapplicabilita' della maxi sanzione irrogata
dalla DTL discendesse (anche) dal fatto che i rapporti di lavoro  non
si erano svolti totalmente in nero. 
    Considerato, da un  lato,  che  sono  presenti  nel  ricorso  una
domanda  generica  di  riduzione  delle  sanzioni/applicazione  delle
stesse in misura minima, nonche'  l'allegazione  del  presupposto  di
fatto   dell'applicazione   del   c.d.   trattamento    sanzionatorio
affievolito introdotto nel comma 3 dell'art. 3, D.L. n. 12/2002 dalla
legge n.  183/2010,  costituito  dall'avvenuta  regolarizzazione  dei
rapporti di lavoro, e considerato, dall'altro lato, che  rientra  nei
poteri del giudice dell'opposizione determinare la  sanzione  tra  il
minimo e il massimo edittale, applicando direttamente  i  criteri  di
cui all'art. 11, legge n. 689/81 (v. Cass.  18811/2003),  ritiene  il
giudicante che, nel caso  di  specie,  tra  i  poteri  giudiziali  di
determinazione del trattamento sanzionatorio rientri anche quello  di
applicare la sanzione affievolita  prevista  dall'art.  3,  comma  3,
secondo periodo D.L. n. 12/2002. 
    In altre parole non pare al  giudicante  che  l'applicazione  del
trattamento sanzionatorio affievolito  di  cui  all'art.  3  comma  3
secondo periodo D.L. n. 12/2002  concreterebbe  una  pronuncia  ultra
petitum, attenendo detta applicazione alla  mera  determinazione  del
trattamento  sanzionatorio,  nell'ambito   della   cornice   edittale
prevista dalla disposizione, e in presenza di una domanda della parte
opponente di «riduzione delle sanzioni». 
    Sennonche',   l'applicazione   del   trattamento    sanzionatorio
affievolito - sopravvenuto rispetto alla commissione dei fatti -  non
risulta allo stato possibile, poiche' l'art. 1, legge n.  689/81  non
prevede, in materia di sanzioni amministrative, la retroattivita' del
trattamento sanzionatorio piu' favorevole. La disposizione,  infatti,
prevede  che   nessuno   possa   essere   assoggettato   a   sanzioni
amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima  della  commissione  della  violazione,  ma  non  riproduce  il
precetto dell'applicazione della  legge  successiva  piu'  favorevole
all'autore  della  violazione,  contenuto  invece,  per  le  sanzioni
penali, nell'art. 2, comma 2 c.p. 
    Di   qui   la   rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale proposta con la presente ordinanza. 
    Quanto alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,  non
ignora il giudicante come la Corte Costituzionale  abbia  in  passato
escluso che l'applicazione retroattiva della lex mitior in materia di
sanzioni  amministrative  sia  costituzionalmente  necessitata   (cfr
C.Cost. 501/2002, C.Cost. 245/2003). 
    Ritiene tuttavia il giudicante che detta soluzione  possa  essere
rimeditata alla luce delle esigenze di  conformita'  dell'ordinamento
agli  obblighi  derivanti  dall'adesione  alla   CEDU,   cosi'   come
interpretati dalla recente giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    A  tal  proposito  si  osserva  anzitutto  che,   se   presa   in
considerazione all'interno del sistema della Convenzione europea  dei
diritti dell'uomo, la sanzione amministrativa di cui all'art. 3 comma
3 D.L. n. 12/2002 (nella versione introdotta dall'art. 36-bis,  comma
7,  lett.  a)  D.L.  n.  223/2006)   potrebbe   essere   fondatamente
qualificata come «penale». 
    Com'e' noto, infatti, la Corte di Strasburgo da  tempo  risalente
ha ritenuto di natura «penale»  -  ai  fini  dell'applicazione  delle
garanzie  dell'equo  processo  (art.  6  CEDU)   -   anche   sanzioni
formalmente qualificate come amministrative negli  ordinamenti  degli
Stati parte della CEDU, in base ai criteri (tra  loro  alternativi  e
non cumulativi) della natura del precetto violato  e  della  gravita'
della sanzione. 
    In particolare, secondo la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo
una sanzione - pur qualificata come  amministrativa  nell'ordinamento
nazionale - deve essere ritenuta di natura «penale»  ai  sensi  della
Convenzione ove la norma che la commina sia rivolta alla  generalita'
dei consociati e persegua uno scopo preventivo, repressivo e punitivo
e non meramente risarcitoria e/o  ove  la  sanzione  suscettibile  di
essere inflitta comporti per l'autore dell'illecito un  significativo
sacrificio, anche di natura meramente  economica  e  non  consistente
nella privazione della liberta' personale (v. in particolare C.edu, 6
agosto 1976, Engel c. Paesi Bassi, nonche',  inter  alia,  C.edu,  21
febbraio 1984, Ozturk c. Germania e 1° maggio  2005,  Ziliberberg  c.
Moldavia). 
    In applicazione di  tali  criteri,  nelle  sentenze  Menarini  c.
Italia (27 settembre 2011, ric. 43509/08) e Grande Stevens c.  Italia
(4 marzo 2014, ric. 18640/10) la Corte europea dei diritti  dell'uomo
ha  ritenuto  di  natura  «penale»  ai  sensi   dell'art.   6   CEDU,
rispettivamente le sanzioni amministrative in materia di  concorrenza
di cui all'art. 15, legge n. 287/1990 e le sanzioni amministrative in
materia di manipolazione del mercato di cui all'art. 187-ter, decreto
legislativo n. 58/1998. 
    In specie, ritiene il giudicante che la c.d. maxi sanzione per il
lavoro  nero  debba  qualificarsi  come  «penale»  alla  luce   della
giurisprudenza della Corte  europea.  In  primo  luogo,  infatti,  la
citata  disposizione,  rivolta  alla  generalita'   dei   consociati,
persegue uno  scopo  non  meramente  risarcitorio,  ma  repressivo  e
preventivo  rispetto  al  fenomeno  del  lavoro  nero  in  chiave  di
protezione dell'interesse,  di  rilevanza  costituzionale  (artt.  38
Cost.), della tutela previdenziale del lavoro. 
    In secondo  luogo,  la  sanzione  astrattamente  irrogabile  puo'
raggiungere un rilevante importo, poiche' compresa tra €  1.500  e  €
12.000 per ciascun lavoratore irregolare e maggiorata  di €  150  per
ciascuna giornata di lavoro effettivo. E difatti,  nella  fattispecie
oggetto di causa, la sanzione ammonta, per  24  giornate  di  impiego
irregolare di 4 lavoratori, alla non modesta cifra di € 10.450,00. 
    Dalla natura «penale» ai sensi della CEDU della sanzione  di  cui
all'art.  3  comma  3  D.L.  n.  12/2002  discende,  ad  avviso   del
giudicante, l'applicabilita' alle stesse del principio  di  legalita'
penale di cui all'art. 7 CEDU, ai sensi del quale i reati e  le  pene
debbono essere previsti dalla legge. 
    Detto principio, per come interpretato dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo nella sentenza Scoppola  c.  Italia  (17  settembre
2009 ric. 10249/2003) e nella sentenza Mihai  Torna  e.  Romania  (24
gennaio 2012, ric. 1051/06), include  il  principio  di  applicazione
retroattiva, in favore del reo, del  trattamento  sanzionatorio  piu'
mite sopravvenuto rispetto alla commissione del fatto. 
    L'acquisita natura di garanzia convenzionale del principio  della
retroattivita'   della   lex   mitior,   unitamente    all'inclusione
dell'illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella  materia
penale ai sensi della CEDU, comporta  il  contrasto  con  l'art.  117
Cost. - per violazione del parametro interposto  rappresentato  dagli
artt. 6 e 7 CEDU - dell'art. 1, legge n. 689/1981, che  non  prevede,
per le sanzioni amministrative, l'applicazione retroattiva della  lex
mitior e, quindi la  necessita'  di  riconsiderare  -  superandolo  -
l'orientamento giurisprudenziale consolidato  (cfr  Cass.  6712/1999,
Cass.  SS.UU.  890/1998,  Cass.  8074/1998,  Cass.  2058/1998,  Cass.
11928/1995, Cass. 13246/1992, Cass. 6318/1986, Cons.  St.  3497/2010,
Cons. St. 2544/2000), avallato in passato dalle sentenze  501/2002  e
245/2003 della  Corte  Costituzionale,  sfavorevole  all'applicazione
alla materia delle sanzioni amministrative del principio in esame. 
    Del resto, le  considerazioni  appena  svolte  erano  gia'  state
prospettate dal Tribunale Cremona, con  l'ordinanza  n.  447  dell'11
settembre  2013,  di  promovimento  di  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1 legge n. 689/81, in relazione  alla  quale
la  Corte  costituzionale  non  si  e'  pronunciata,  disponendo  con
ordinanza n. 247/2013 la restituzione degli atti al  rimettente,  sul
presupposto  -  non  rilevante  nella  presente  fattispecie  -   del
possibile difetto di rilevanza della questione nella causa a quo, per
intervenuta  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale   della
sanzione  amministrativa  della  quale   doveva   in   specie   farsi
applicazione (l'art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo  n.
66 del 2003). 
    Inoltre - come gia' evidenziato dal Tribunale  di  Cremona  nella
citata ordinanza n. 447 - la mancata previsione della  retroattivita'
del trattamento  sanzionatorio  piu'  mite  in  materia  di  sanzioni
amministrative appare in contrasto con l'art. 3 della Costituzione  e
col principio di ragionevolezza e uguaglianza. 
    Invero, la stessa Corte costituzionale  (cfr  C.Cost.  393/2006),
occupandosi  della  legittimita'  costituzionale   della   legge   n.
251/2005,  ha  chiarito  che  la  retroattivita'  della  legge   piu'
favorevole, pur non essendo prevista espressamente dalla Costituzione
(a differenza dell'irretroattivita' della legge sfavorevole), nemmeno
in ambito  penale,  deve  comunque  considerarsi  espressione  di  un
principio  generale   dell'ordinamento,   legato   ai   principi   di
materialita' e offensivita' della violazione, dovendosi  adeguare  la
sanzione alle eventuali modificazioni della percezione della gravita'
degli illeciti da parte dell'ordinamento giuridico. 
    Sebbene il  principio  dell'applicazione  retroattiva  della  lex
mitior non sia assoluto, ha spiegato in quell'occasione la  Corte,  a
differenza di quello di cui all'art. 2, primo comma c.p. (e art.  25,
secondo comma Cost.) tuttavia la sua deroga deve essere  giustificata
da gravi motivi di  interesse  generale  (C.Cost.  393/2006,  C.Cost.
236/2011), dovendo in  tal  senso  superare  un  vaglio  positivo  di
ragionevolezza e  non  un  mero  vaglio  negativo  di  non  manifesta
irragionevolezza. 
    Devono  cioe'  essere  positivamente  individuati  gli  interessi
superiori,  di  rango  almeno  pari  a  quello   del   principio   in
discussione, che ne giustifichino il sacrificio. 
    Non si ravvisano tuttavia nella specie motivi tali da  supportare
il sacrificio al trattamento piu' favorevole, come dimostra anche  la
considerazione che, in altri settori, il legislatore ha  recentemente
introdotto norme del tenore dell'art. 2 commi 2 e 4 c.p. 
    Possono  citarsi  l'art.  23-bis  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 148/1988 (introdotto dall'art. 1, legge n. 326/2000) in
materia  di  illeciti  valutari,  l'art.  3  decreto  legislativo  n.
472/1997 sulle violazioni tributarie (cfr  Cass.  1656/2013),  l'art.
46, decreto legislativo n. 112/1999 in  materia  di  concessioni  del
servizio di riscossione, l'art. 3 decreto legislativo n. 231/2001  in
materia di responsabilita' amministrativa  degli  enti  per  illecito
penale. 
    Malgrado  si  tratti  di  settori  speciali,  non  sussiste   una
differenza ontologica tra gli illeciti amministrativi  oggetto  delle
norme citate e la disciplina generale della legge n. 689/1981, ne' si
rinvengono motivi di  interesse  generale  tali  da  giustificare  il
diverso trattamento. 
    Sussiste quindi violazione dell'art. 3 Cost. anche per  cio'  che
riguarda il principio di uguaglianza, assunte le  norme  citate  come
tertium comparationis. 
    Non si ritiene, infine, che l'evidenziato contrasto  dell'art.  1
legge n. 689/1981 con l'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt. 6 e
7 CEDU), e  con  l'art.  3  Cost.  possa  essere  risolto  attraverso
un'interpretazione conforme alla CEDU e ai parametri  costituzionali,
in quanto- come gia' rilevato dal Tribunale di Cremona con la  citata
ordinanza n. 447 - esiste consolidata giurisprudenza (vero e  proprio
diritto vivente)  della  Corte  di  Cassazione,  oltre  a  precedenti
negativi della Corte  Costituzionale,  che,  in  piu'  occasioni,  ha
ribadito la non applicabilita'  del  principio  della  retroattivita'
della lex mitior al settore degli illeciti amministrativi, rifiutando
un'applicazione analogica dell'art. 2, secondo comma c.p., anche alla
luce  dell'art.  14  preleggi  (cfr  Cass.  6712/1999,  Cass.  SS.UU.
890/1998, Cass. 8074/1998, Cass. 2058/1998, Cass.  11928/1995,  Cass.
13246/1992,  Cass.  6318/1986,  Cons.  St.   3497/2010,   Cons.   St.
2544/2000) e considerando i limitati casi in cui il  principio  della
retroattivita' della lex  mitior  opera  come  casi  settoriali,  non
estensibili oltre il loro ristretto ambito di applicazione. 
    Avendo  dato  esito  negativo  il  tentativo  di  interpretazione
conforme,  e  non   essendo   possibile   fare   applicazione   della
disposizione ritenuta in contrasto con la CEDU e la Costituzione,  va
sollevata questione di legittimita'  costituzionale,  per  violazione
dell'art. 117 comma 1 (in  relazione  agli  artt.  6  e  7  CEDU),  e
dell'art. 3 Cost. dell'art. 1, legge n. 689/1981, nella parte in  cui
lo stesso  non  prevede,  diversamente  dall'art.  2,  comma  4  c.p.
l'applicazione all'autore dell'illecito  amministrativo  della  legge
successiva piu' favorevole. 

(1) Non  rileva  nel   presente   giudizio,   relativo   a   sanzioni
    amministrative e non a sanzioni civili ex lege 388/2000,  che  il
    comma 3 dell'art. 3  prevedesse  altresi'  che  «l'importo  delle
    sanzioni civili connesse all'omesso versamento dei  contributi  e
    premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo  precedente
    non puo' essere inferiore  a  €  3.000,  indipendentemente  dalla
    durata della prestazione lavorativa accertata» e che detta  parte
    della  disposizione  sia  stata   dichiarata   illegittima,   per
    irragionevolezza, da Corte cost. n. 254/2014. 

(2) L'ultima parte del comma in parola prevede altresi' in  relazione
    alle sanzioni civili: «l'importo delle sanzioni  civili  connesse
    all'evasione dei  contributi  e  dei  premi  riferiti  a  ciascun
    lavoratore irregolare di cui ai periodi precedenti  e'  aumentato
    del 50 per cento».